Tra tutti gli attori che ho incontrato, preferisco quelli timidi. Quelli che sulla scena sono fuoco e fiamme. E gridano. E girano. E ti vengono a rovistare fin dentro lo stomaco. Poi, a fine spettacolo, tolgono il costume e la maschera. E tornano a confondersi con gli altri. Con tutti. Timidi.
Timidi, perché ti guardano ma hanno paura di disturbare. Ti salutano, ma esitano nell’abbracciarti. Vorrebbero sapere di te, senza mostrare troppo di loro.
Eppure, gli occhi degli attori timidi parlano anche fuori dalla ribalta. Così le mani, la bocca, il cuore. E forse è la rappresentazione più bella. Quella della realtà, troppo vera per essere messa in scena. Troppo quotidiana per poter interessare a qualcuno. Troppo ferita, per non dolere ad ogni tentativo di narrazione.
Eppure anche l’attore timido, quando non recita, esprime bellezza. Gratuitamente, inaspettatamente e forse senza consapevolezza. Con la sua storia imperfetta e nervosa, con il rimpianto di non esser riuscito a dar tutto e la speranza di poter far meglio. Con un semplice accenno di accoglienza. Con la voglia di sigaretta.
L’attore timido, infine, è contento. Non della vita, della società, del mestiere. Semplicemente perché ci sei stato, anche senza applaudire. Perché hai tenuto gli occhi fissi sulla scena, e non li hai distolti, dopo, dalla sua storia.
E se ti chiede: “cosa hai imparato da me?”. Non rispondere. Non serve. Basta un sorriso, come un “grazie”.
Come una benedizione.