Il clown, il teologo e la Chiesa

Il clown, il teologo e la Chiesa

Hanno suscitato molte reazioni le parole del card. Carlo Maria Martini, riportate dal Corriere della Sera del 1° settembre scorso. Descrivendo la situazione attuale della Chiesa, credo che evidenziasse la difficoltà a comunicare con il mondo. Se le strutture della Chiesa, esprimano cosa la Chiesa sia realmente oggi.

«La Chiesa è stanca, nell’Europa del benessere e in America. La nostra cultura è invecchiata, le nostre Chiese sono grandi, le nostre case religiose sono vuote e l’apparato burocratico della Chiesa lievita, i nostri riti e i nostri abiti sono pomposi. Queste cose però esprimono quello che noi siamo oggi?»

Mi piace allargare la riflessione suscitata dal card. Martini con le parole del teologo Joseph Ratzinger, mosso dalla stessa necessità: parlare della fede a coloro che non hanno familiarità «col pensiero e col linguaggio ecclesiale». Credo che la riflessione sul piano teologico, possa essere analogamente applicata all’azione pastorale e alla vita delle comunità cristiane di oggi.

«Chi oggi tenti di parlare della fede cristiana, di fronte a persone che per professione o per convenzione non hanno familiarità col pensiero e col linguaggio ecclesiale, avvertirà ben presto quanto sia ostica e sconcertante tale impresa. Avrà probabilmente subito la sensazione che la sua posizione sia descritta per filo e per segno nel noto apologo del clown e del villaggio in fiamme narrato da Kierkegaard, recentemente ripreso in forma stringata da Harvey Cox (…).
La storiella narra di un circo viaggiante in Danimarca, colpito da un incendio. Il direttore mandò subito il clown, già abbigliato per la recita, a chiamare aiuto nel villaggio vicino, oltretutto perché c’era pericolo che il fuoco, propagandosi attraverso i campi da poco mietuti e quindi secchi, s’appiccasse anche al villaggio. Il clown corse affannato al villaggio, supplicando gli abitanti ad accorrere al circo in fiamme, per dare una mano a spegnere l’incendio. Ma essi presero le grida del pagliaccio unicamente per un astutissimo trucco del mestiere; tendente ad attirare il maggior numero possibile di persone alla rappresentazione; per cui lo applaudivano, ridendo sino alle lacrime. Il povero clown aveva più voglia di piangere che di ridere e tentava inutilmente di scongiurare gli uomini ad andare, spiegando loro che non si trattava affatto di una finzione, d’un trucco, bensì di una amara realtà, giacché il circo stava bruciando per davvero.
Il suo pianto non faceva altro che intensificare le risate: si trovava che egli recitava la sua parte in maniera stupenda…  La commedia continuò così finché il fuoco s’appiccò realmente al villaggio e ogni aiuto giunse troppo tardi: villaggio e circo finirono entrambi distrutti dalle fiamme.
Cox narra questo apologo a titolo esemplificativo, per delineare la situazione in cui versa il teologo al giorno d’oggi, e nel clown, che non riesce a far si che il suo messaggio sia veramente ascoltato dagli uomini, vede l’immagine del teologo. Anch’egli, infatti, paludato com’è nei suoi abiti da pagliaccio tramandatigli dal Medioevo o da chissà quale passato, non viene mai preso sul serio. Può dire quello che vuole, ma è come se avesse appiccicata addosso un’etichetta, come se fosse imprigionato nel suo ruolo. Comunque si comporti, qualsiasi tentativo faccia per presentare la serietà del caso, tutti sanno già in partenza che egli è appunto solo un clown. Si sa già di che cosa parli, si sa che offre solo una rappresentazione che ha poco o nulla da spartire con la realtà.
Lo si può quindi ascoltare con animo sollevato, senza essere obbligati a inquietarsi seriamente per quello che dice. Nell’immagine si cela indubbiamente una traccia dell’imbarazzante realtà in cui dibattono oggi la teologia e il linguaggio teologico; qualcosa della pesante impossibilità di rompere gli schemi delle abitudini mentali e linguistiche, per presentare la causa della teologia come caso serio della vicenda umana».
(J. Ratzinger, Introduzione al cristianesimo, Queriniana, Brescia 1990, p. 11)

Mi domando quale abbigliamento da recita sia necessario dismettere. Quale processo di rinnovamento attuare. Non per adattare il Vangelo al mondo. Ma per parlare lo stesso linguaggio, per esprimersi attraverso segni, gesti e parole comprensibili al mondo. Per non essere fraintesi. Per essere presi sul serio. Per avere a che fare con la realtà.

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