«Un uomo scendeva da Gerusalemme a Gerico e cadde nelle mani dei briganti, che gli portarono via tutto, lo percossero a sangue e se ne andarono, lasciandolo mezzo morto» (Lc 10, 30-31). Così scopriamo che esiste un’umanità spogliata, ferita e mezza morta, che giace ai bordi delle strade percorse quotidianamente. Fratelli e sorelle a cui è stata rubata la dignità e la vita.
«L’eclissi del senso di Dio e l’offuscarsi della dimensione dell’interiorità, l’incerta formazione dell’identità personale in un contesto plurale e frammentato, le difficoltà di dialogo tra le generazioni, la separazione tra intelligenza e affettività… Le persone fanno sempre più fatica a dare un senso profondo all’esistenza. Ne sono sintomi il disorientamento, il ripiegamento su se stessi e il narcisismo, il desiderio insaziabile di possesso e di consumo, la ricerca del sesso slegato dall’affettività e dall’impegno di vita, l’ansia e la paura, l’incapacità di sperare, il diffondersi dell’infelicità e della depressione… Il mito dell’uomo “che si fa da sé” finisce con il separare la persona dalle proprie radici e dagli altri, rendendola alla fine poco amante anche di se stessa e della vita».
Complice anche l’indifferenza della comunità cristiana: non attenta, distratta da altro, presa dalle sue “cose”. Forse disorientata, impreparata, paurosa. Troppo presa a mormorare quando Gesù parla con una donna, tocca il lebbroso, guarisce in giorno di sabato, mangia con i peccatori, va a casa di Zaccheo, chiama Matteo il pubblicano, sceglie come amico Giuda, sta anche fuori dal tempio, con coloro che nel tempio non hanno il permesso di entrare.
«Invece un Samaritano, che era in viaggio, passandogli accanto, vide e ne ebbe compassione» (Lc 10,33). Il Samaritano si lascia interrogare dalla realtà, si avvicina e ha compassione: si sporca le mani e si lascia trafiggere il cuore. Come Gesù sulla via di Emmaus, il quale, provocato dalla tristezza dei suoi compagni di strada, si avvicina per dialogare con loro, e poi offre la sua stessa vita nel pane spezzato per loro.
Vescovi, preti e laici, religiosi e religiose, tutti dovremmo percorrere le strade del mondo con più coraggio e sollecitudine. Dovremmo uscire verso Gerico, per incontrare l’umanità ferita e privata della vita e per incontrare lì il volto misericordioso del Padre, che salva e dona vita anche a noi.
Quando penso alla città di Gerico, ho davanti a me l’immagine della città di oggi, con la sua cultura, i suoi linguaggi, le storie spezzate e le speranze che germogliano. Il mondo che interpella il popolo di Dio, che lo interroga silenziosamente o violentemente. Gerico è il luogo in cui è necessario entrare, perché si compia la promessa di Dio. Il confine tra il deserto della storia e la Terra promessa. La necessità dura di incontrare altri, di trovare nuove modalità, linguaggi comprensibili, gesti profetici, relazioni vere. Mura apparentemente inespugnabili da infrangere ad ogni costo, davanti alle quali siamo paralizzati dalla paura o accecati dall’indifferenza.
Papa Francesco ci esorta: «La Chiesa è chiamata ad essere sempre la casa aperta del Padre. Uno dei segni concreti di questa apertura è avere dappertutto chiese con le porte aperte. Così che, se qualcuno vuole seguire un mozione dello Spirito e si avvicina cercando Dio, non si incontrerà con la freddezza di una porta chiusa. Ma ci sono altre porte che neppure si devono chiudere. Tutti possono partecipare in qualche modo alla vita ecclesiale, tutti possono far parte della comunità, e nemmeno le porte dei Sacramenti si dovrebbero chiudere per una ragione qualsiasi. Questo vale soprattutto quando si tratta di quel sacramento che è “la porta”, il Battesimo. L’Eucaristia, sebbene costituisca la pienezza della vita sacramentale, non è un premio per i perfetti ma un generoso rimedio e un alimento per i deboli. Queste convinzioni hanno anche conseguenze pastorali che siamo chiamati a considerare con prudenza e audacia. Di frequente ci comportiamo come controllori della grazia e non come facilitatori. Ma la Chiesa non è una dogana, è la casa paterna dove c’è posto per ciascuno con la sua vita faticosa» (Evangelii gaudium 47).
Quando il popolo di Israele contemplando le mura inespugnabili di Gerico, stava per rinunciare, ma ebbe il coraggio di fidarsi di Dio. E anche oggi facciamo fatica a comprendere alcune istanze culturali, a penetrare cuori e ambienti, apparentemente ostili, della politica, dell’economia, della comunicazione; ad abitare la vita quotidiana e le domande dell’esistenza.
Solo così Gesù continuerà ad attraversare Gerico e tutte le nostre città e i cuori che vi abitano. A donare la luce e conforto a chi è smarrito, compagnia a chi è solo, a chiamare Zaccheo alla gioia vera, a offrire a tutti la salvezza e la pienezza di vita.
Proviamo ad uscire dai centri delle nostre consuetudini stanche, delle logiche logore, delle parole sterili. E con audacia e prudenza, fidandoci dello Spirito più che dei nostri piani, entriamo in Gerico, dove ci sarà sempre qualcuno in attesa, pronto all’accoglienza, forse più di quanto noi siamo pronti alla missione.
E «le mura della città crollarono su se stesse», inaspettatamente.