L’ascolto del vangelo domenicale procedeva tranquillo. Sarebbe stata una domenica in cui mettere al centro i bambini, per dare una tiratina d’orecchie ai genitori che non li portano in chiesa, oppure a quelli che li portano e li lasciano liberi di scorrazzare rumorosamente.
«E, preso un bambino, lo pose in mezzo a loro e, abbracciandolo, disse loro: «Chi accoglie uno solo di questi bambini nel mio nome, accoglie me; e chi accoglie me, non accoglie me, ma colui che mi ha mandato».
Ma le prime parole del brano evangelico mi hanno reso inquieto. Il contrasto evidente tra Gesù che rivela il mistero della sua Vita: «Il Figlio dell’uomo viene consegnato nelle mani degli uomini e lo uccideranno; ma, una volta ucciso, dopo tre giorni risorgerà». E l’incomprensione dei suoi amici, aggravata dal timore di interrogarlo, di chiedere spiegazioni, di avere ulteriori dettagli. Eppure il Signore, che loro avevano scelto di seguire, stava parlando della sua morte violenta. E quell’incomprensione e la fatica a porre domande ulteriori è comune anche a me. Da questo, l’inquietudine. Quando non capisco il vangelo, e tutto sommato mi sta bene. Perché preferisco rimanere insicuro ma comodo. Piuttosto che camminare tenacemente nella speranza. A volte, almeno. Spesso.
Poi la domanda di Gesù: «Di che cosa stavate discutendo per la strada?». Ed essi tacevano. Per la strada infatti avevano discusso tra loro chi fosse più grande. Sedutosi, chiamò i Dodici e disse loro: «Se uno vuole essere il primo, sia l’ultimo di tutti e il servitore di tutti». Gesù parla della passione e della Croce. E io, con i miei fratelli, a fare a gara su chi fosse il più grande. Lui della offerta totale della sua Vita, io a barattare onori e piccole risacche di potere. L’abisso incoerente tra la casa e la strada. In casa con Gesù, devoti, umili e attenti ascoltatori della sua Parola. Sulla strada incoerenti e sedotti dalle logiche del potere e della supremazia.
Non è sempre così. Non tutti. Ma spesso accade. Almeno a me. E Gesù, invece di rimproverarmi per l’incoerenza, continua a essere disponibile alla mia compagnia. Mi propone un bambino come modello e misura del Regno dei cieli. Perché il bambino è vero e immediato, a costo di farti fare pessime figure. Perché il bambino è debole e indifeso, e accoglie tutto e tutti come dono. Perché il bambino si fida e si abbandona totalmente a coloro che gli vogliono bene, senza calcoli e senza riserve.
Poi mi sono tornate in mente le parole di Suspence, che si trova in Siria, come giornalista, a raccontare una guerra che qui in Italia sembra non interessare nessuno. E l’inquietudine è aumentata.
E poi i bambini. Tanti bambini morti ed il dolore composto dei genitori. Cosa c’è di più atroce della perdita di un figlio? Non riesco a immaginarlo. Un padre, preso dalla rabbia, aveva tirato su l’esile corpicino senza vita del suo bambino di pochi mesi. Un fantoccio senza più anima strattonato a destra e a sinistra come monito ai posteri. Lo agitava per aria per mostrarlo a noi giornalisti, poco distanti. Con gli occhi imperlati di lacrime me lo aveva porto tra le braccia. “Signora, racconta nel tuo Paese quello che stanno facendo ai nostri figli…” (da Terrore ad Aleppo)
Alcune sue scelte di vita mi lasciano perplesso e a tratti distante, ma Suspence è riuscita a farmi cogliere l’ennesimo stridore: il cortocircuito provocato, a causa del mio peccato, tra liturgia e storia, tra Parola e vita, tra chiesa e strada. Dentro a pregare per i poveri e i sofferenti. Fuori, assuefatti alle logiche indifferenti del mondo, a dimenticarli.
Non sempre. Non tutti. Oggi sento semplicemente la necessità di chiederne perdono, per ogni volta che è accaduto a me. E la gratitudine, per la Misericordia che senza merito mi raccoglie. Ogni volta.