Perché su Twitter? Perché no? Scrive Benedetto XVI dei social network, descrivendoli come: “una nuova agorà, una piazza pubblica e aperta in cui le persone condividono idee, informazioni, opinioni, e dove, inoltre, possono prendere vita nuove relazioni e forme di comunità”.
Per la verità già da molti anni frequentavo Facebook e poi Twitter. Ma le parole del Papa mi davano coraggio: non avevo sbagliato a “starci”. E neppure mi ero ingannato ad accorgermi per me tempo che la rete non era più uno strumento da utilizzare oppure no. Piuttosto, un luogo da abitare o disertare. Liberamente.
Ho deciso di “starci”. Inizialmente per curiosità, per vedere come era e come funzionava. Poi per raccontare.
E raccontare che un prete è una persona normale. Che non siamo dei marziani. nel bene e nel male. Per raccontare la quotidianità, il camminare, lo stupore, il dolore, la gioia, i dubbi. La mia vita da prete, insomma. Qualcuno pensa si tratti di esibizionismo. E in parte è vero, a causa del mio ego indomabile. Ma come parlare della fede, di Gesù, del Vangelo senza metterci la faccia, la mia storia concreta e la mia vita quotidiana?
Poi ho scoperto la bellezza del confronto, la tristezza della stupidità e il fascino della ricerca. Ho cominciato ad incontrare gente. Molti non li avrei mai trovati in una chiesa. Molti non avrebbero mai immaginato di intrattenersi a chiacchierare con un prete. Ma in questi “luoghi” i ruoli pesano meno e le parole possono assumere sfumature inattese.
Infine ho cominciato a stupirmi. Dei racconti di alcuni e della confidenza di tanti. Della possibilità di abbracciare tanta diversità, senza rinunciare alla propria identità. Del paradosso di quanto Gesù possa attrarre tanti “miscredenti” e scandalizzare i soliti bigotti. Le provocazioni del Vangelo raccolte dai “lontani”, e annacquate dai “vicini”. La bellezza di incontrarsi, il brivido di condividere un sogno, un dolore o una grande gioia. E poi la libertà di andare, fino anche a perdersi di vista.
Allora, ho scoperto l’ascolto. Pensavo di dover parlare, raccontare, rispondere (deformazione clericale), e mi sono trovato ad ascoltare, a guardare, a rimanere in silenzio. Lo ha fatto Gesù per oltre trent’anni, nella quotidianità di Nazareth, prima di incominciare a predicare il Regno del Padre. Ma per tanto tempo sono stato tentato di ricordare solo la parte che mi faceva più comodo.
Così ho imparato. La bellezza di tutte le storie e il valore di ogni persona. La necessità di accogliere tutti, senza necessariamente acconsentire a ogni cosa. Il dovere di ascoltare prima che di predicare, di accompagnare anziché dirigere. La responsabilità di curare ma anche la libertà di lasciar andare via.
In questi mesi anche il blog è rimasto in silenzio. Mi sono fermato ad ascoltare. E neppure avevo cose interessanti da dire. Dicono che a tuittare sono proprio bravo. Spero di essere anche un bravo prete. Non perfetto, ma vero.
Questi spazi, quando sono valorizzati bene e con equilibrio, contribuiscono a favorire forme di dialogo e di dibattito che, se realizzate con rispetto, attenzione per la privacy, responsabilità e dedizione alla verità, possono rafforzare i legami di unità tra le persone e promuovere efficacemente l’armonia della famiglia umana. Lo scambio di informazioni può diventare vera comunicazione, i collegamenti possono maturare in amicizia, le connessioni agevolare la comunione. Se i network sono chiamati a mettere in atto questa grande potenzialità, le persone che vi partecipano devono sforzarsi di essere autentiche, perché in questi spazi non si condividono solamente idee e informazioni, ma in ultima istanza si comunica se stessi. (Benedetto XVI, Messaggio per la 47a Giornata mondiale delle Comunicazioni sociali)