Luogo di misericordia o non stanza delle torture?

Luogo di misericordia o non stanza delle torture?

“Da quanto tempo è che non ti confessi?”. Così inizia generalmente la celebrazione del sacramento della Penitenza o Riconciliazione. Con questa domanda che spesso induce alla vergogna del penitente, e da parte del sacerdote rivela un duplice tradimento. Perché deve essere subito messo in chiaro che l’interesse

principale non sta nel “quanto tempo”, ma nel “chi sei”, nella relazione che hai e desideri avere con il Padre. Personalmente, prima di rivolgere questa domanda “da quanto tempo è che non ti confessi?”, da prete, chiedo: “di che cosa vuoi ringraziare il Signore?”. E in secondo luogo, non si tratta della sola “confessione” di un elenco di delitti, ma dell’annuncio di un amore che li cancella e li supera. Dell’abbandono all’amore vero, che non si riduce alla ripetizione, a volte formale e meccanica, di cose fatte, ma si realizza nel rintracciare, nella propria storia, la presenza del male e nel desiderare la possibilità del suo superamento.

E la “confessione” ne è solo una parte, un momento, un’esigenza.

Prima è necessario l’esame della propria coscienza, cioè un dialogo autentico e senza alibi con il proprio cuore ferito. Un confronto esigente con la Parola di Dio e i segni che egli pone nella vita quotidiana. Il riconoscimento della propria radicale incapacità, dell’umiliante infelicità, del ricorrente fallimento, che è il peccato. Cioè l’allontanamento dalla propria casa e dalla propria vita, come il figlio della parabola.

Quando Luca scrive: “e partì per un paese lontano”, vuol dire assai più del desiderio di un giovane di conoscere meglio il mondo. Parla di un drastico taglio rispetto al modo di vivere, pensare e agire che gli è stato trasmesso di generazione in generazione come un sacro retaggio. Più che di mancanza di rispetto si tratta di un tradimento (H.J.M. Nouwen, L’abbraccio benedicente, Queriniana).

E poiché questo tradimento di Dio, ma anche di noi stessi, ci schiaccia, abbiamo bisogno del sostegno della comunità cristiana. È necessaria la presenza di un padre che accolga e di fratelli capaci, a loro volta, di fare festa. Per questo si cerca il perdono di Dio nella Chiesa e da un prete.

Ed è il passo più faticoso. Forse doloroso. Non tanto dire “i peccati” a un altro, quanto “rialzarsi in piedi”, cioè accettare di risorgere, e di tornare nella propria casa. Riconoscere un amore più grande del nostro cuore, una parola più vera delle nostre presunzioni, un abbraccio che non mi chiede in cambio nulla. La gratuità del perdono, forse, ci spaventa più della nostra vergogna di riconoscerci peccatori. Perché è più facile

rimanere a terra e umiliarsi, svendendosi a ogni compromesso, piuttosto che riprendere in mano la propria vita, come un dono, e ricominciare a camminare nella libertà dei figli.

Una delle più grandi provocazioni spirituali è ricevere il perdono di Dio. C’è qualcosa in noi, esseri umani, che ci tiene tenacemente aggrappati ai nostri peccati e non ci permette di lasciare che Dio cancelli il nostro passato e ci offra un inizio completamente nuovo. Qualche volta sembra persino che io voglia di mostrare a Dio che le mie tenebre sono troppo grandi per essere dissolte. Mentre Dio vuole restituirmi la piena dignità della condizione di figlio, continuo a insistere che mi sistemerò come garzone. Ma voglio davvero essere restituito alla piena responsabilità di figlio? Voglio davvero essere totalmente perdonato in modo che sia possibile una vita del tutto nuova? Ho fiducia in me stesso e in una redenzione così radicale (H.J.M. Nouwen, L’abbraccio benedicente, Queriniana).

Allora il prete ti assolve. Cioè, di scioglie e ti libera. E ti chiede di cambiare vita. Cioè, di ricominciare ad essere felice.

E l’atto di dolore e “la penitenza” da fare, non rendono giustizia al sacramento del ritorno a casa e non evocano l’abbraccio del Padre. Anzi, sembra che tutto si risolva in una filastrocca imparata a memoria e in una preghierina da dire, dopo. Forse noi preti, dovremmo aiutare i penitente anche a prendere consapevolezza della liberazione ricevuta in dono e alla responsabilità di cominciare subito a godere quella novità di vita. Cioè passare dall’atto di dolore a un grande atto di gratitudine, ripensando a cos’era la propria esistenza senza la Misericordia di Dio. E insieme, a dare concretezza all’abbraccio del Padre e testimonianza del ritorno gioioso a casa. Per questo dopo l’esame di coscienza, la confessione dei peccati, l’assoluzione, l’atto di dolore e il desiderio di non rimanere più impigliati nelle trame del male, bisogna fare festa. Invece di concludere la celebrazione della Riconciliazione con un atto di devozione, dovremmo compierlo con un atto di felicità, magari da condividere con tutti. Come la consumazione di quel vitello grasso che il padre aveva messo da parte, nell’attesa di gioire insieme al figlio ritrovato e a tutta la comunità.

È il primo ed eterno amore di un Dio che è allo stesso tempo Padre e Madre. È la sorgente di ogni vero amore umano, anche del più limitato. Tutta la vita e la predicazione di Gesù hanno avuto un solo scopo: rivelare questo inesauribile e illimitato amore paterno e materno del suo Dio e indicare la via che consente a quell’amore di guidare ogni istante della nostra vita quotidiana. Nel dipinto del padre, Rembrandt mi offre un barlume di quell’amore. È l’amore che da sempre accoglie a casa e sempre vuole festeggiare (H.J.M. Nouwen, L’abbraccio benedicente, Queriniana).

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